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Umberto, Rosi e Cristoforo.

domenica 24 settembre 2017

Questa storia non è facile.
Questa storia è delicata, ma è anche drammatica.
Questa storia fa pensare, fa arrabbiare e fa sperare.
Questa storia è complessa e semplicissima.
Questa storia comincia con un uomo, Umberto, don Umberto,  che butta il cuore oltre gli ostacoli, che non chiude le porte, che sfida le convenzioni, non ascolta i timorosi ma si circonda di persone che sanno essere prudenti al posto suo e lo rincorrono nella sua corsa affannati, preoccupati , indaffarati ma trascinati dal suo candido ottimismo.

Questa storia comincia con Rosi che alcuni anni fa si era iscritta a un prestigioso corso di cucina ma si era presa una pesante influenza e dovette rinunciare. Così era andato suo marito Gianni. Appassionati entrambi di cucina avevano aperto un piccolo ristorante, un gioiellino, dove ogni cosa era fatta a mano partendo da acqua e farina, da verdure fresche, da pesce pescato. Ogni piatto era uno scrigno di passione e gusto, di preziosa semplicità servito su immacolate tovaglie col sorriso e la battuta sagace e spiritosa di Rosi che ti faceva  sentire a casa tua; e con Gianni che, silenzioso e pacato, tirava la sfoglia o impiattava raffinate tartare di salmone. Hanno poi chiuso. Ci sono esperienze che per quanto positive arrivano al capolinea e si sente il bisogno di rinnovare le proprie capacità e dare una nuova chance alle proprie competenze. Nel cercare un nuovo nido hanno incontrato Umberto che aveva ormai 50 bocche da sfamare ma non aveva nemmeno il tempo di mangiare.

Questa storia continua con tanti volti che per varie ragioni si sono trovati accantonati, salvati, spaesati, arrabbiati…comunque soli , isolati dal resto del mondo dalla paura e dalla diffidenza, dall’impotenza e dalle difficoltà di chi resta solo.

Sono volti, e cioè persone.
Sono storie, sono vite.
Sono ricordi e legami familiari in crisi o magari spezzati.
Sono errori commessi che non ti scrollerai di dosso, e anche se il mondo ti perdonerà tu li sentirai sempre come il tuo inevitabile fardello.
Il passo più difficile non è pagare né essere perdonati, ma perdonarsi.
E allora devi imparare a conviverci a portartelo sulle spalle come fatica costante. E allora vorresti nasconderlo ma non puoi. E allora è giusto così ma sarebbe anche giusto poter camminare ancora, nonostante il fardello, camminare avanti , rialzarsi e camminare.
C’è chi ce la fa. C’è chi no.
C’è chi incontra persone come Umberto e Rosi e almeno ci prova.
Ecco Umberto, Rosi e tutti quelli che danno una mano, o qualche ora di tempo, ci provano.  Umberto accoglie, tutti. Rosi cucina, per tutti.

Sono andata una mattina alle 9.30 a conoscere Rosi e la sua brigata di cucina, con l’intento di fare due chiacchiere  bevendo un caffè . Mi sentivo molto reporter. Sapevo a grandi linee cosa facevano: sono anni che Umberto accoglie e, nel tempo, non solo sono aumentate le persone ma provvidenzialmente anche gli aiuti. Perché tanti accolti prima sono raccolti e non hanno nessun provento, nessuna sovvenzione. Ma hanno comunque fame. Di cibo. E, sopratutto, di un sorriso. Dicevo…sono andata in una soleggiata mattina di settembre armata di taccuino e smartphone. Ma non appena sono entrata  nella piccola palazzina dove convivono gli ospiti ho capito che l’atteggiamento era sbagliato. Perché era arrogante e supponente, presuntuoso e dominante. Pensavo di andare per aiutare, ma mi ero messa inconsapevolmente su un gradino più su e invece per capire bisognava mettersi il grembiule.

Entro e c’è Rosi impegnata al telefono, ho un attimo di smarrimento senza lei che mi introduce. Invece…
Entro e mi salutano come se fossi sempre stata lì: sono abituati a facce nuove che girano in casa loro. Chi mi guarda con diffidenza, chi mi osserva, chi guarda e basta.
Entro e non vedo caffettiere ma sento profumo di riso basmati. E’ tanto che non lo faccio a casa… me lo devo ricordare!
Entro e c’è fermento, vapore, voci,rumori…forse c’è anche della musica ma vengo rapita dai sorrisi bianchi dei cuochi, dallo sguardo preoccupato di Rosi e dal silenzio operoso di Idris.
Entro e mi sento fuori luogo. O meglio capisco lì che è il  mio atteggiamento ad essere fuori luogo. Vorrei un grembiule, per mimetizzarmi, sarebbe il lasciapassare per entrare discretamente in quella piccolissima cucina ma anche questa fretta è arrogante e mi appoggio allo stipite della porta, che porta non ha, e osservo, temendo che anche il solo sguardo possa essere di troppo.
Capisco perché non c’è speranza per un caffè: oggi  hanno comprato 70 hamburger pensando di fare cosa gradita, ma non sono stati calcolati i tempi di preparazione , le padelle a disposizione e la diffidenza di chi non li ha mai mangiati. Ma questo oggi passa il convento e così alle 10 con un padellino, che definirei “da studenti in un bilocale”, cominciano a cuocere. L’hamburger fatto in anticipo è insidioso: non va cotto troppo sennò diventa di marmo, non va lasciato crudo sennò non lo mangia nessuno, va tolta l’invisibile plastichina che lo avvolge, non va bruciato e va mantenuto caldo…nulla di tutto ciò è scontato e vedo Rosi inseguire i suoi aiutanti controllando che tutto venga fatto a modo. Vedo Rosi preoccupata, sembra chiedersi come fare, sembra disperare , la vedo resistere ma percepisco la nostalgia per la cucina del suo ristorante dove tutto filava liscio e tranquillo con la radio in sottofondo.
E’ mortificata perché non c’è spazio per un caffè ma se l’avessimo bevuto non avrei visto e capito tante cose. E non è facile raccontarle bene.
Osservo le mani grandi che armeggiano con gli hamburger: chissà da dove vengono. Osservo la danza in quei 9 (?) mt quadrati in cui 7 persone preparano per 50 con 4 fuochi come i miei di casa. Osservo la confusione organizzata : nessuno si pesta i piedi, ognuno ha il suo compito. Finché magicamente compaiono due pentoloni di riso caldo e profumato e due pentoloni di stufato speziato e fumante.


Beh, “magicamente” non è la parola esatta. Scoprirò poi che c’è voluto un anno per insegnare ad ottenere questo risultato, e non tanto per la tecnica  del soffritto o della mantecatura ma sopratutto per il concetto di tempo e organizzazione , di ordine e rispetto reciproco in una comunità che non ha una lingua comune, una religione comune, una cultura comune se non quella di avere gli stessi bisogni primari di cibo e di amore. L’uno senza l’altro.

Per fare la disinvolta provo a scambiare due parole con Idris anche perché vorrei sapere come ha fatto a fare quel riso cotto e sgranato quando a me  diventa sempre appiccicoso. E’ serio e silenzioso, mescola con calma e assaggia con cura. Poi copre con un telo bianco e lo lascia riposare caldo. Se lo faccio io mi diventa colla. Provo a indagare e capisco che cucinava già prima ma sopratutto capisco che non ha voglia di parlare tanto. Invece Adam ride e sorride sempre e con la sua ingombrante mole entra ed esce dall’angusta cucina senza urtare nessuno. Mi accompagna nel refettorio: due grandi stanze bianche ed azzurre , apparecchiate e pulite con le finestre spalancate perché è la fine dell’estate e si può vedere il giardino pubblico sul retro. Ha voglia di condividere la sua allegria, o forse la cerca,  fatto sta che  mi chiede una foto. Con un fiore in mano: con tutto quello che ha passato per arrivare qui ha bisogno di bellezza per sopravvivere e mentre la cerca la dona per primo. Questo dono è la mano tesa che non mi chiede aiuto ma mi fa partecipare.  
Immagino tutte le panche occupate da volti costretti dal destino a mangiare insieme. Chissà se c’è confusione, se riescono a condividere, o se ognuno mangia nel suo silenzio; chissà se il destino ha saputo anche dare una speranza e chissà se loro l’hanno vista e perseguita o se per rabbia l’hanno persa, o per stanchezza, o per timore, o per paura … chissà se Umberto riesce a sedersi con loro qualche volta, e chissà se riescono a capire l’Amore che ci mette e che muove tutti i volontari che a vario titolo tengono viva questa speranza…penso a Pasquale che sta in ufficio con le pratiche burocratiche, penso a Giacomo, Gloria e Rosette che insegnano italiano…penso a Idris, Godwin, Solomon, Adam, Morrow… e a tutti i cinquanta e passa nomi che qui intrecciano le loro vite e non si dimenticheranno mai l’un l’altro. Penso a chi cerca di darsi da fare e a chi non ce la fa restando sdraiato sul letto ammalato dalla vita in attesa di guarigione.O di un piatto di riso. O di un sorriso.

Provo a immedesimarmi, ma se penso alle tante diversissime storie che hanno riunito questa variegata compagine mi gira la testa : c’è chi parla il mio dialetto ma ha perso tutto e c’è chi non ha mai visto la nebbia e sta cercando un posto che forse non esiste. Per rispetto mi fermo qua, non posso sapere né capire nulla di più adesso, posso solo ammirare questa storia che ho visto e respirato, questa storia che inciampando si rialza e ci riprova e piano piano va avanti; dove alla fine non ci sono più ospiti e volontari, ma persone che si aiutano a vicenda ; dove non ci sono né buoni né cattivi ma persone imperfette , normalissime persone imperfette, generose e coraggiose.

Questa storia si chiama San Cristoforo, perché il santo era forte e aiutava ad attraversare un fiume dove non c’era un ponte e dove la corrente poteva portarti via.
La leggenda narra che quando dovette portare un Bambino sulle spalle fece davvero tanta fatica ma non cedette. Quella fatica si chiama Amore e non ha una sola lingua né una sola religione. E’ una musica universale . Per sentirla e farla risuonare ci vuole silenzio.
Il silenzio che non avevo quando mi sentivo reporter, ma che aveva Idris mentre preparava il riso, o Adam mentre prendeva il fiore.

Se volete saperne di più…e c è molto di più…

Www.San cristoforo.org

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